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martedì 17 febbraio 2009

La Sicilia ponte di collegamento dell' archeologia mediterranea

Gli ultimi risultati della missione archeologica in Iraq, compresi i numerosi reperti trovati dai militari italiani nel corso delle loro attività di perlustrazione, sono al vaglio di studiosi e archeologi dell' Università La Sapienza di Roma, guidati da Giovanni Pettinato, ordinario di Archeologia del Vicino Oriente ma più conosciuto per i numerosi studi e "traduzioni" delle tavolette in argilla del periodo sumerico e antico mesopotamico. Nelle prossime settimane uscirà a cura dell' Accademia dei Lincei (edizioni Bardi), l' ultimo studio di Pettinato su "La pietra nera di Nassiriya", incentrato sulla scoperta della pietra di fondazione dello Ziqqurat di Ur, la città di Abramo, forse la città più antica della storia. Lo abbiamo incontrato a Enna. presso l' Università Kore, dove insegna Assirologia, e dove oggi e domani è impegnato in un convegno di archeologia. Pettinato (di origine ennese ma per molti anni residente in Germania) è stato tra i promotori del corso di laurea in "Archeologia del Mediterraneo" presso la facoltà di Beni Culturali. Nelle ultime scoperte effettuate in Iraq e in Iran risultino sostanziali sconvolgimenti rispetto alle datazioni che abbiamo sui primi documenti scritti? «Ho sentito anch' io di notizie relative a scavi nell' Iran orientale, ma oltre gli annunci occorre vedere gli studi e le pubblicazioni a riguardo, per poi collocare cronologicamente le nuove scoperte. A quanto ne so dei ritrovamenti iranici, non mi pare ci sia traccia di popoli sumerici». Per stare un po' più vicini: secondo lei la Sicilia è abbastanza studiata nei traffici dell' antico mediterraneo (vedi le recenti mostre al museo archeologico di Palermo) e comunque andrebbero fatte nuove campagne di scavo nell' Isola? «Fino ad oggi sulle tavolette mesopotamiche e siriane non abbiamo trovato rapporti con la parte occidentale del mediterraneo, e quindi con la Sicilia. Tuttavia a partire dal XIV secolo a. C. ci sono evidenti tracce dei rapporti intrattenuti dai Fenici, stanziati nell' attuale Libano, con questa parte del mediterraneo. C' è ancora molto da scavare e studiare in Sicilia. L' ennese, ad esempio, è una di quelle zone dove si è sempre scavato poco, a parte Morgantina e ora i dintorni della Villa del Casale. L' Università Kore sta conducendo proprie campagne di scavo a Villarosa e a Pietraperzia. Anche l' archeologo Patrizio Pensabene, che ha scoperto un insediamento medievale accanto alla Villa del Casale, docente alla Kore. C' è molto da fare anche sulla formazione degli "scavatori". Nel passato si è "scartato" tutto ciò che era di provenienza arabo-islamica e in questa parte della Sicilia si è perso qualche passaggio stratigrafico». E oggi? «La formazione degli scavatori è più attenta, vedi il caso di Troina e la scoperta della grande sepoltura nei dintorni del lago Ancipa». La Kore potrebbe assolvere quel ruolo "formativo" che lei richiamato? «Sì, se assolve alla sua "collocazione" originaria nell' area della Sicilia centrale. D' altra parte lo statuto di questa Università le assegna un ruolo di collegamento con i Paesi del Mediterraneo. Pensiamo infatti all' avvio dei corsi di laurea in "Storia e Archeologia del Mediterraneo", in "Mediazione culturale e cooperazione euromediterranea", in "Studi internazionali e relazioni euromediterranee", in "Lingue Culture dell' Asia e dell' Africa", tutti corsi recentissimi. I nostri sforzi sono indirizzati, nello specifico archeologico, a una collaborazione con i paesi della riva sud (Egitto, Tunisia, Marocco), ma anche con la Giordania, per attivare convenzioni per lo scavo e la formazione».

di Claudio Paterna


già pubblicato su "La Repubblica" - Palermo del 13 ottobre 2007

Sperlinga, i tesori sotto il castello

Sotto i merli del castello angioino di Sperlinga c' è un tesoro da scoprire. Il più vituperato dei castelli siciliani, famoso per aver concesso asilo ai francesi durante la guerra del Vespro, nasconde sotto le sue visceri tracce di antiche civiltà e culti misteriosi. Un gruppo di studiosi locali, tra cui un geologo, un archeologo, uno storico, un antropologo, hanno portato alla luce le tracce nascoste del passato. I sei autori di "Sperlinga, città antica di Sicilia"(edizioni Novagraf, 158 pagine, 20 euro) nell' ottica di valorizzare i siti urbani dell' ennese come impianti residuali delle antichissime «polis»,(si pensi a Henna, Assoro, Agyrion, Kenturipe, Herbita (Nicosia), Galaria (Gagliano) Trinakia (Troina), si sono imbattuti in tracce archeologiche sconosciute, dettagliatamente inventariate e ricostruite nel volume ricco di 275 immagini. Il borgo rupestre sotto il castello viene passato ai raggi x attraverso l' indagine delle decine di grotte e spelonche, un tempo abitate, al centro di tanti reportage giornalistici fin dagli anni Sessanta, oggi viene proposto per il vincolo etnoantropologico dalla Soprintendenza, visto il permanere dell' arredo tradizionale contadino-pastorale per cura del Comune che ne ha fatto un parco urbano. Qua e là sono stati individuati dagli studiosi tratti di mura greche e tombe preistoriche castellucciane, soprattutto verso la Torre est (Contrada Farina) e verso il versante sud con l' imponente Balzo. Poi tratti di fortificazioni romane vicino la vecchia chiesa di Sant' Anna e tracce delle torri civiche, come quella Sveva e quella della porta ovest. Infine I resti della porta sud e della «torre dell' orologio». Ma sono arrivate anche delle sorprese: sotto le volte dell' ala est del castello, un tempo aspre prigioni in roccia, si è scoperto un piccolo santuario preistorico, con i resti dell' altare circolare, già segnalato di sfuggita da Houel nel 1785; ma nessuno si era finora accorto che sopra c' era una campana scavata nella roccia, con foro a imbuto, nel più classico stile miceneo. Le sorprese non finiscono qui: nell' ala ovest del castello, nei sotterranei, è stato scoperto un ambiente con dodici nicchie, da sempre considerato appendice agro-pastorale del castello (che lasciava incuriositi i visitatori per un raggio di sole che penetrava dall' alto). Anche qui la scoperta di un ipogeo a campana con le vicine canalette di gronda che ricordano i bacini lustrali degli antichi santuari. Sia Paolo Orsi che Dino Adamesteanu avevano condotto nell' alto ennese brevi campagne di scavo, ma il dato antropologico del borgo rupestre abitato ha richiamato nel corso degli anni soprattutto esperti di discipline etnologiche. Gioacchino Lanza-Tomasi che negli anni Sessanta, con un bel libro fotografico, aveva rivalutato il maniero di Sperlinga, forse mai avrebbe ipotizzato che quel castello di roccia sarebbe divenuto per gli studiosi un modello di architettura da «escavazione». Dopo il castello si passa alle vicine contrade, tra cui la già nota Balzo della Rossa, luogo individuato dal Messina come esempio di moschea sotto roccia, e a poca distanza il cosidetto castello di pietra individuato da Pietro Bianchi come «antica fortezza trogloditica disposta in vari ambienti a più piani... «. Più a est, verso Gangi la masseria fortificata di Santa Venera, luogo di feste campestri dedicate alla Santa, col piccolo santuario riedificato negli anni Trenta. La particolarità della festa in questo luogo solitario, «apparentemente inconcepibile in un territorio privo di centri abitati d' età moderna», ha indotto i sei studiosi a verificare le sopravvivenze di antichi culti alle divinità femminili. Sono così emerse le tracce di un cammino processionale verso contrada Cicera, il cui inizio è segnalato da uno sperone in quarzarenite a forma triangolare. Sotto lo sperone, che scenograficamente domina la vallata, un ipogeo sormontato da un disco in pietra ad altorilievo, dal diametro di un metro, individuato come uno dei simboli della dea Cibele. Le rocce sulla sommità dello sperone sono sagomate a guisa di altari, con scale intagliate nella roccia. Da qui in poi il cammino processionale presenta qualcosa di interessante in località grotta Campana: diverse tombe rupestri collocate negli speroni rocciosi sparsi su tutto il territorio a sud di monte Barbagiano. In uno di questi speroni si apre una tomba a tholos a pianta rettangolare «con volta perfettamente ogivale scavata nella roccia quarzarenitica» che gli autori mettono in relazione con quella micenea del tesoro di Atreo (si veda il grande foro sulla sommità che dall' esterno si presenta come l' imbocco di un pozzo e all' interno la perfetta campana scavata nella roccia). L' ingresso, fortemente rimaneggiato come del resto l' interno, è a forma trapezoidale. Al centro della campana una fossa circolare probabile deposito votivo, come quello ritrovato nella grotta a Tholos di Alia, in località Gurfa, già oggetto di studi antropologici per le dimensioni. Il cammino prosegue lungo la stradina in acciottolato che si inerpica verso Masseria Cicera. Dal sentiero si notano numerose testimonianze rupestri lungo il vallone San' Antonio. Tra queste, due tombe affiancate, formanti unico ambiente, con tetto a spiovente. Sulla parete a sinistra dell' ingresso tracce di scrittura indecifrabile e sul piano pavimentale fosse rettangolari dove venivano deposti i defunti. Verso la sommità, infine, due «naiskoi» intagliate nella roccia come quelle già viste a Palazzolo Acreide in località Santuna. Le grandi rupi in calcarenite friabile - la stessa roccia che affascina per I riflessi e le venature profonde i tanti viaggiatori che si recano ogni anno a Petra, in Giordania, - sono sparse tra il Vallone di Sant' Antonio, l' abitato di Sperlinga, le contrade Vaccarra, Quaranta, Sant' Ippolito, Perciata, Cirino, Roccacorta e Capostrà citate e studiate nel volume. Queste rupi isolate appaiono tutte di analogo interesse antropologico e archeologico per il gran numero di grotticelle scavate alla maniera sicula delle grandi necropoli (come a Pantalica), con una continuità di insediamento che va dall' età del bronzo fino ai nostri giorni, considerato l' uso agro-pastorale e talvolta religioso, tutt' oggi documentato. Va da sé la notizia citata dall' Amari oltre un secolo fa, che gli arabi nel conquistare l' interno dell' isola, si trovarono di fronte gli abitanti di decine di villaggi bizantini fortificati che apparivano e scomparivano nel nulla come «inghiottiti dalla terra». Oggi questi villaggi vengono rintracciati e studiati senza tabù alcuno verso le tracce di civiltà non-classiche, come nel caso di contrada Canalotto a Calascibetta o nella vicina Villarosa, dove l' Università Kore di Enna, di concerto con la Provincia (Pit), ha avviato un progetto progressivo di scavo e recupero.

di Claudio Paterna


già pubblicato su "La Repubblica" - Palermo del 21/10/2008

I misteri di agira la città di ercole

Il mistero del sito archeologico dell' antica Agyrion, patria del grande storico Diodoro Siculo, sta per essere finalmente svelato. Nell' intento di identificare l' insediamento originario si sono consorziati tre enti pubblici, la Soprintendenza di Enna, il Comune di Agira, l' associazione regionale SiciliAntica, che ha offerto i volontari per gli scavi. Ora che si tirano le somme del cantiere archeologico, dopo un lungo lavoro che ha riportato alla luce, tra le strutture urbane datate tra il VI e il IV secolo avanti Cristo, anche i resti della celebrata Zecca del conio bronzeo, ora si cerca di dare spiegazione a una serie di enigmi storici di cui la polis è stata inconsapevole protagonista. Un mistero lungo tremila anni quello del sito di Agyrion dei Siculi, città fondata dal mitico Ercole, andato lì per espiare una colpa, al termine delle dodici fatiche, e dove avrebbe edificato un tempio al crudele dio Gerione per non incappare nella collera di Poseidone. Scrittori e viaggiatori, fin dal tempo di Esiodo, Stesicoro e Virgilio hanno ritenuto che il famigerato tempio di Gerione, sorvegliato da cani molossi e pastori vendicativi, fosse un luogo sperduto tra le nebbie dell' isola Eritrea. Poi Dante Alighieri nel XVII canto dell' Inferno ha voluto dare di Gerione una immagine più mediterranea. La storia erudita, quella che ha riproposto in salse diverse gli antichi classici, ha spesso confuso il mito di Ercole con quello di Jolao, suo commilitone, famoso per la lunga chioma imitata dai giovinetti del luogo: il mito è stato ripreso al passaggio tra paganesimo e cristianesimo, quando la grande cisterna, che si diceva costruita da Ercole stesso (e oggi si ritiene sepolta sotto largo della fiera), divenne un fonte battesimale con rito di immersione, ai tempi di San Filippo Siriaco, un missionario orientale. Gli eruditi continuarono a favoleggiare del potere salutare di quelle acque che "liberavano i malati dalla rabbia e dall' epilessia, rilasciavano i luoghi impuri della presenza di spiriti malefici~ e trasformavano in taumaturghi i monaci basiliani come San Filippo, intanto divenuto patrono degli agiresi, come lo erano stati un tempo Ercole e Jolao. Per ricompensare il santo cristiano dei benefici e del gran numero di pellegrini che ogni anno raggiungevano la cittadina (tradizione continuata fino agli inizi del secolo scorso), gli abitanti edificarono un grande monastero dotato di Scriptorium ed estense proprietà fondiarie. Ma anche di questo monastero - l' unico a quanto sembra che sopravvisse alla dominazione musulmana - si sono perse le tracce. Come se non bastasse anche gli Ebrei - che dimoravano ad Agira fin dal tempo di Diodoro e soprattutto al tempo di Federico II - vollero lasciare a perenne ricordo della loro presenza un altro mistero da svelare: l' unico esempio di Aron medievale in pietra mai realizzato dalla Diaspora in occidente. Ci sono tutte le premesse per eleggere Agira a luogo della fantasia e delle costruzioni letterarie; ma c' è chi s' è messo d' impegno a trovare le tracce materiali di questi racconti. Alla fine i soci della locale sede di SiciliAntica, guidati dal giovane Orazio La Delfa, sono riusciti nell' intento: hanno convinto il loro presidente regionale, Giuseppe Lo Porto, ad aprire un cantiere di scavo nei luoghi della supposta acropoli di Agyrion, per effettuare nuovi saggi visto che dai tempi di Bernabò Brea e Rosario Carta nessuno aveva più fatto rilievi stratigrafici nella zona. Al lavoro sono andati oltre cento volontari di SiciliAntica provenienti da tutta l' isola che hanno scritto una bella pagina sul volontariato nei beni culturali. I saggi di scavo sono iniziati a quota 650 metri, sotto il sole cocente di luglio, iniziando alle falde delle torri medievali del castello federiciano, già oggetto di interventi da parte della Soprintendenza. Poco per volta sono venuti fuori i "terrazzamenti" su cui era articolato l' antico tessuto urbano, con ritrovamenti sistematici di pesi da telaio, pithoi, molta ceramica da fuoco: «Sulla scorta dell' evidenza ceramica - rileva l' archeologo Cottonaro - abbiamo individuato la fase cronologica che va dai prodotti indigeni alle bande decorative tipiche del periodo ellenistico, passando per la fase d' importazione attica». A sua volta Ileana Contino sostiene che i terrazzamenti individuati sfruttavano il banco di roccia esistente in quota, e per ragioni ancora da scoprire, l' area superiore dell' abitato è stata utilizzata prima per scopi produttivi e poi per uso abitativo. Un risultato che va ben oltre ogni rosea previsione, che premia il volontariato, come spiega il presidente di SiciliAntica: «Non possiamo affidare la ricerca del nostro passato solo alle convenzioni con università estere e missioni condotte da studiosi stranieri, mentre i nostri ricercatori sono magari costretti a emigrare». Allo stato il cantiere archeologico aperto a quota 650 coincide con la scoperta di una necropoli ellenistica nella parte bassa dell' attuale Agira, insieme alla scoperta, sempre in periferia dell' abitato, di antiche strutture per la lavorazione delle argille (Stazzuni), produzione di cui un tempo gli agirini vantavano il primato in tutta la Sicilia centro-meridonale. Adesso, dopo i primi entusiasmi, si parla di un parco archeologico nell' area del castello, che renda fruibili tutte le scoperte, dove si possano svelare i segreti degli antichi edifici menzionati dalle leggende: il teatro greco, il più bello dopo quello di Siracusa secondo Diodoro, forse nascosto tra i ruderi dell' ex oratorio di san Giacomo o il convento della Santissima Trinità, il tempio di Gerione, che si ritiene essere nei pressi del complesso basilicale a forma quadrangolare del Santissimo Salvatore (dove è stato ritrovato l' aron ebraico), il tempio di Jolao che la tradizione vuole sulla spianata del castello, meglio da identificare nella struttura sotterranea chiamata "carcere del castello". E poi il Foro che una tradizione orale ritiene trovarsi sotto la piazza del Santissimo Salvatore. Infine il Gimnasium, costruito pure da Ercole, per i giochi e i sacrifici annuali che si tributavano all' amico Jolao. Le cerimonie d' età classica si svolgevano presso la porta della città detta "Eraclea" e il tracciato delle corse pedestri era quello lasciato miticamente dalle «orme degli zoccoli dei buoi sottratti da Ercole a Gerione». Alle feste di Ercole e Jolao, caratterizzate dai giochi equestri e dalla lotta (Iolaeya), partecipavano in gran numero gli schiavi, fatta eccezionale per il mondo greco, che in Sicilia lasciava molto spazio ai culti indigeni e a quelli degli schiavi. Per queste fasce sociali Eracle era considerato nume tutelare della libertà, come attestato da una moneta agirina dell' età di Timoleonte siracusano. Da altre monete, pure in loco ritrovate, l' eroe Jolao appare come una figura maschile vestita di corto chitone reggente un corno ed avente ai suoi piedi un cane (Ciaceri). La tradizione più sorprendente, segnalata da vari storici, era tuttavia quella di lasciar crescere le lunghe chiome ai fanciulli in onore di Jolao come sacra offerta. La stessa tradizione in epoca postuma si faceva in onore di San Filippo Siriaco, nume cristiano che poteva dispensare buona sorte ai devoti dalla lunga chioma.

di Claudio Paterna

già pubblicato su "La Repubblica" - Palermo del 16/12/2008

Il torcicoda svela ricoveri e mulini

E' come l' esperienza di un viaggio nel ventre della madre-terra, tra grotte e corsi d' acqua che hanno scavato solchi profondi. Scendere tra le gole del torrente Torcicoda, tra Enna e il lago-mito di Pergusa, equivale a un viaggio a ritroso nel tempo, quando i lavori agricoli si facevano con la vanga e l' aiuto di un docile mulo; un luogo in cui le abitazioni erano riparate sotto la roccia. Oggi è la stessa immagine che si presentò tre secoli fa al viaggiatore olandese Jean Phlippe d' Orville quando giunse nei pressi del vallone Pisciotto di Enna, lungo il Torcicoda: rimase impressionato dalla grande quantità di grotte che si aprivano in sequenza lungo le pendici rocciose: «Ci siamo avventurati sugli orli dei precipizi, penetrando entro grotte sovrapposte o contigue, scavate nell' alta rupe rocciosa: diverse di queste sono abitate, le chiamano le grotte dei Greci~». I Greci cui si riferiva il d' Orville non erano quelli della tradizione classica bensì i bizantini, rimasti famosi per gli aspetti sotterranei della loro civiltà e i numerosi santuari in grotta (le "Laure"). La coincidenza ha voluto però che un gruppo di archeologi in cerca di tracce greco-ellenistiche abbia scoperto nella profonda vallata del Torcicoda un insediamento autoctono che sembra riportarci ai cliff-dwellings del Colorado ovvero ai ripari sotto roccia che nascondono interi villaggi. La "Mesa Verde" dell' ennese si chiama "Riparo di contrada San Tommaso" e l' hanno scoperta poco tempo fa, dal punto di vista archeologico, un gruppo di studiosi del Centro di Archeologia Mediterranea, diretto da Enrico Giannitrapani. Le tracce in superficie hanno riportato l' intera sequenza abitativa dal secolo scorso fino al medioevo, quando il villaggio, costituito da gruppi di case disposte frontalmente, separate dal corso d' acqua, era prevalentemente occupato da agricoltori che curavano i terreni a valle del torrente e soprattutto erano guardiani del complesso sistema di canalette, mulini e serbatoi necessari come riserva d' acqua. Lo scavo archeologico ha individuato vari livelli stratigrafici, d' epoca arabo-bizatina, romana, ellenistica, fino alla preistoria su cui l' équipe intendeva approfondire le proprie conoscenze. «Il riparo è stato individuato nell' ambito del progetto Archeologia nella valle del Torcicoda, progetto condotto e realizzato da Mark Pluciennik dell' Università di Leicester - ci spiega Giannitrapani - una felice sinergia tra istituti culturali italiani e britannici che ha già prodotto importanti risultati in altri siti archeologici della Sicilia. C' è molto interesse isolane da parte degli istituti universitari esteri a valorizzare le aree archeologiche ma attualmente non c' è nessuna normativa o progetto che favorisca queste sinergie nella gestione dei beni culturali». L' équipe di scavo ha scoperto altri ripari tra le pietre arenarie permeabili del Torcicoda. Sotto questi "ripari-canyon" si sono conservati alcuni edifici in uso fino agli anni Sessanta del secolo scorso, tra cui il "Mulino nuovo", risalente alla metà dell' Ottocento. Questa struttura rudimentale fa parte di un sistema complesso di canali di adduzione d' acqua e di mulini (circa venti), presenti lungo il corso del torrente, che costituivano la ricchezza tecnologica delle popolazioni prevalentemente dedite alla pastorizia e ai lavori agricoli. Tra gli altri complessi ricordiamo il "Mulino dell' agnello" (1873) dove esiste ancora la "botte", i mulini "Paradiso" e "Immacolata", con canali di adduzione e vani di molitura, il mulino "Valata", con annessi ambienti per il ricovero degli animali in attesa della molitura, e infine il mulino "Marcatobianco", il più lontano, posto alla confluenza del Torcicoda con l' Imera, imponente per gli archi dei corpi di fabbrica. Un censimento di questi mulini è stato realizzato nel 2002 dal Servizio Etnoantropologico della Soprintendenza di Enna, quest' ultima pure impegnata nel coordinamento degli scavi archeologici al riparo "San Tommaso": in effetti nella parte più protetta del complesso è stato individuato, accanto ai resti di abitazioni sotto roccia, un ricco deposito di materiali che copre tutta l' età del Bronzo e del Ferro (inizio II millennio fino ai primi secoli del I millennio a. C.), contribuendo a svelare importanti asperrri dei modi di vivere di queste misteriose popolazioni che abitavano nei villaggi sotto roccia. Giannitrapani, tutt' ora impegnato in altri scavi a Pietraperzia e Calascibetta, località interessate da analoghi ripari sotto roccia (ci sono almeno trenta aree di rinvenimenti archeologici), tiene stages sul campo agli studenti dell' Università Kore, ed è anche per merito suo se la conoscenza di queste dimore è uscita definitivamente dalla sfera delle superstizioni (grotte dei fantasmi, degli incantesimi ecc.) e dei luoghi comuni, per diventare materia di indagine scientifica. «Le ampie grotte e i ripari che si aprono sulla vallata, similmente alla "cave" degli Iblei e alle "gravine" pugliesi - ci spiega il geologo Salvatore Scalisi della Soprintendenza-sono legate alla disposizione tabulare dei terreni. L' enorme banco di tufi calcarei che si propaga dal monte di Enna, formandovi una cresta dirupata dai profili caratteristici, è stato profondamente inciso dall' azione corrosiva delle acque». Di ciò ne sono convinti tutti coloro che fin dai tempi di d' Orville e Vuillier, hanno tentato di dare una lettura antropologica alle oltre quattrocento cavità sparse lungo la vallata del Torcicoda. Quando nel XVIII secolo il canonico Massa vide quelle grotte abitate pensò che esse in precedenza fossero state dimora delle ninfe Eree (La Sicilia in Prospettiva,1709). Altri studiosi come il Littara, l' Alessi, il Falautano e il Vetri, vi hanno intravisto i resti di una grande necropoli preistorica appartenente a un popolo che praticava il matriarcato e osservava le costellazioni stellari per stabilire il proprio calendario agro-pastorale. Ma almeno Cerere, tra le divinità, alle sorgenti del Torcicoda vi andava e sostava prima di riprendere la ricerca della "rapita" figlia Proserpina. Il Mongitore, ne "La Sicilia ricercata", sorpreso dal corteo paganeggiante che ogni anno gli ennesi tributavano alla patrona auspice del buon raccolto, - segnalava la grotta di "Cerere Arsa", sotto la chiesa di Valverde, - dove l' ultima effige pagana era stata nascosta in una profonda grotta. Miti e luoghi curiosi sono andati sempre a braccetto e il fatto che quelle grotte fossero talvolta considerate "burgi", ripari agricoli, o "case di santi", romitaggi, poco importava agli ennesi i quali facevano spallucce del pregiudizio del "troglodismo". Taluni viaggiatori, a partire dal Fazello, avevano segnato queste cavità col marchio delle dimore trogloditiche, pregiudizio duro a morire se ancora nel 1924 B. Rubbino si esprimeva per le cavità del Torcicoda negli stessi termini dell' indagine di Franchetti e Sonnino. «Almeno sei buoni motivi-scrive Renè Guenon, il maggiore studioso della sacralità delle grotte - possono convincere gli uomini a utilizzarle diversamente dagli scopi abitativi». Ed ecco le grotte ennesi utilizzate soprattutto come attività produttiva, come luogo di essicazione di sostanze vegetali, come ricovero per animali, come frantoio o palmento, come semplice magazzino, come luogo estrattivo, come sede di una bottega artigianale (basta dare uno sguardo alle attività segnalate nel borgo rupestre di Sperlinga). O addirittura come bottega dello "speziale" o cappella votiva (il caso della grotta dei santi, posta sotto la Rocca di Demetra a Enna). Alcune di queste grotte, quelle del "Pisciotto", vicino l' antico quartiere ebraico, sono state acquistate dal Comune, destinandole a luogo di esposizione della cultura materiale. Altre sono oggetto di culto come quelle di "Papardura". Altre ancora sono state oggetto di scavo archeologico fin dai tempi di Paolo Orsi che qui era di casa. Anni addietro la cooperativa "Demetra" di Enna, diretta da Aldo Alvano, e la Soprintendenza sotto la guida di Carmelo Nicolosi, svolsero una catalogazione piuttosto esaustiva, con rilievi e schede, su queste grotte, segnalandone alcune spettacolari, come quella di "Cannataro", a più ambienti rialzati, quella dello "Spirito Santo", costituita da grossi blocchi di pietra, la stessa di via Cerere Arsa, quella sotto il viadotto San Leone, a ridosso del muro che un tempo delimitava l' ingresso nella "polis", e infine la grotta dei "Saraceni" immortalata nelle foto, oggi cult, della famiglia De Angelis di Catania, cui è stato dedicato un opuscolo nel 2002.

di Claudio Paterna

già pubblicato su "La Repubblica" del 10/02/2009